di Neri Pollastri
Etnica, jazz, canzone d’autore: tre mondi, una sola musica di frontiera
Riccardo Tesi, organettista e compositore pistoiese, è uno dei più interessanti musicisti “trasversali” italiani. Formatosi nel campo della musica etnica e popolare, Tesi ha poi collaborato con numerosi jazzisti ma anche con importanti esponenti della musica leggera. Negli ultimi anni, ha unito le sue multiformi esperienze in un gruppo, Banditaliana, di difficile collocazione “di genere”, con il quale sta ottenendo un notevole successo sia in Italia che all’estero.
La sua produzione musicale riflette la molteplicità delle sue ispirazioni e collaborazioni: muovendo in genere da una base etnica e popolare, i suoi album risentono in misura considerevole degli apporti dei musicisti che Tesi chiama a lavorare con lui e del
Chiariamo subito che io non sono un musicista jazz. Non ho mai suonato uno standard, non ho una cultura jazzistica. Le mie origini sono quelle di un musicista etnico. Ho ascoltato molto jazz, ho studiato storia del jazz al DAMS, so che cos’è, ma non ho una cultura jazzistica e non suono uno strumento jazz.
Però del jazz amo alcuni aspetti: quelli legati ad una certa armonia, a certe forme ritmiche, all’improvvisazione. E, soprattutto, amo l’apertura mentale che hanno i jazzisti e per questo mi piace suonare assieme a loro. Certo, mi interessa in particolare il jazz “di confine”, gli artisti che escono dal cliché del bebop, dell’hard-bop e via dicendo. Penso a musicisti come Jan Garbarek, John Surman, Gianluigi Trovesi, Renaud Garcia-Fons, Dino Saluzzi, Egberto Gismonti, Louis Sclavis. Gente che, proveniendo ora più dal jazz, ora più dalla musica tradizionale, cerca comunque di mescolare le influenze, e che vede nel jazz solo una parte dell’intero.
Dino Saluzzi, in particolare, è un musicista che ho sempre molto ammirato. Il suo modo di suonare è unico, per tanti aspetti. Tecnicamente è bravissimo; fa riferimento ad una musica particolarmente suggestiva, quella andina, che reinterpreta in modo molto personale; poi, soprattutto, ha un particolarissimo modo di dare “spazio” alla musica, suonando relativamente poche note, ma utilizzando le pause, i silenzi, in modo estremamente espressivo. È un maestro. Confesso che il suo “Kultrum”, il vecchio disco che incise molti anni orsono per la ECM, mi ha molto influenzato. Anche se il bandoneon è strumento assai diverso dall’organetto ed io non potrei suonare la sua musica. Curiosamente, ho preso il suo posto nell’album di Fabrizio De André, “Anime salve”: il produttore aveva pensato a Saluzzi, poi De André mi sentì suonare e scelse me. Una bella soddisfazione, anche se resto convinto che Saluzzi avrebbe occupato quel posto assai più degnamente di me.
Più che “fare jazz” a me piace suonare con musicisti jazz, che è un’altra cosa. Infatti, spesso sono più loro ad entrare nel mio mondo che non io ad entrare nel loro. Anche se, con l’andare degli anni, io stesso sono cambiato, ed oggi sono molto più dentro il modo di essere dei musicisti jazz di quanto non fosse un tempo. Ho imparato molto dalle mie collaborazioni con Gianluigi Trovesi, Gabriele Mirabassi, Maria Pia De Vito, nelle quali il lavoro di avvicinamento reciproco ci ha permesso di ritrovarci in una “terra di nessuno”, nella quale tutti perdono i loro cliché e ciascuno porta la propria esperienza, per lavorare su una musica tutta da inventare. Questo “modo” di incontrarsi produce spesso cose molto interessanti, che non possono essere catalogate né come musica tradizionale, né come musica jazz. Con Trovesi l’avevamo definita, con un termine forse un po’ abusato, “etnia immaginaria”, perché il concetto di fondo è quello di fare una cosa che sembri etnica perché conserva un certo sapore ma allo stesso tempo sia collocabile in un’area jazzistica per l’improvvisazione e certe armonie normalmente assenti nella musica tradizionale.
In realtà, quello che cerco di fare è essere un “musicista di oggi”. Non ho nessun “credo” da rispettare: per me la musica tradizionale rappresenta un’ispirazione, una cifra stilistica, un modo per fare una musica che non suoni “filoamericana”, anglofona. Tutto il jazz deriva dal blues ed anche il rock’n’roll ha più o meno le stesse radici, c’è comunque un certo modo “disarmonico” di usare le scale che ti porta a quel mondo lì. A me interessa invece partire dal Mediterraneo, da modi, scale e ritmi del Mediterraneo. Più che uno swing mi interessa un ritmo di tarantella, che però può essere trattato in tanti modi diversi: si può partire dal ritmo tradizionale per farlo poi interagire con cose diverse, più attuali. Ecco, mi interessa creare cose nuove usando ingredienti antichi e che facciano parte del nostro patrimonio di cultura musicale. Nel farlo, il riferimento al jazz è importante ma non è il solo. Ad esempio, in quest’ultimo periodo faccio molto riferimento alla canzone d’autore, una forma d’arte solo apparentemente semplice. A causa della sua necessità di comunicare, la canzone d’autore deve infatti mantenere una sua semplicità (che restringe le possibilità espressive, dato che non puoi usare un’armonia troppo sofisticata) ma allo stesso tempo deve esprimere una certa originalità, tutto ciò mantenendo l’equilibrio tra il testo e la musica.
Quello della canzone d’autore è un mondo che ho recuperato di recente, dopo averlo praticato da giovane ed abbandonato per molti anni. Da giovani si ha una concezione musicale molto “affettiva”, ci si identifica con la musica che si suona. Ad esempio, il “metallaro” ascolta solo heavy metal, perché si veste e vive ‘heavy metal’; ascoltare altra musica sarebbe una sorta di “tradimento”. Con l’età si guardano le cose con maggiore distacco e si riesce a recuperare ed apprezzare le cose diverse. A me è successo con la canzone, anche grazie alle mie collaborazioni con Fabrizio De André, in ‘Anime Salve’, e Ivano Fossati, in Macramé. Lavorare con loro mi ha permesso di riscoprire tante cose. Fossati, in particolare, fa una musica molto interessante e dà ampio spazio ai musicisti ed agli assoli: non a caso è un autentico appassionato di jazz! Questo ha permesso quella forma di “incontro” che cerco sempre nelle collaborazioni: io ho portato la mia identità, che in fondo è quella della musica etnica, e l’ho introdotta in un mondo diverso da essa, ma a sua volta estremamente recettivo delle differenze.
I generi musicali
Il problema principale sono gli scaffali dei dischi: tutto parte da lì C’è un bisogno di catalogare ed ordinare il materiale, per cui tutto ciò che non rientra in uno stile ben preciso risulta di difficile collocazione. Ed è un problema crescente, perché ormai gli stili sono sempre più sfumati, per cui si inventano stili “ad hoc”, come la New Age, o la World Music, dentro la quale ci sono proposte diversissime tra loro, da Peter Gabriel alla musica tradizionale.
Inoltre, la comunicazione si è progressivamente ristretta, a dispetto della quantità di informazioni che sono disponibili. Mi spiego: passano talmente tante informazioni che il contenuto informativo si è ristretto. Una volta si aveva molto più tempo per spiegare cosa ci fosse dentro un disco; oggi devi dirlo con un messaggio breve e diventa difficile far capire le sfumature. Perfino nelle interviste radio si è accorciato il tempo: hai due minuti e devi utilizzarli o banalizzando, oppure comunicando un’”idea forte” che non è sempre facile da individuare.
Questa situazione coinvolge anche la musica: si sono accorciati i pezzi, tutto diventa più rapido. Nella mia vita ho avuto la fortuna e l’onore di avere in un mio brano una introduzione dal contrabbasso di Jean-Jacques Avenel – in “Tarentella rouge et noir”, per l’album “Colline” – ma in radio non me lo passeranno mai! Il brano è troppo lungo! Eppure è Jean-Jacques Avenel! Tu puoi sempre dire: “ma che m’importa se non lo passano in radio?!”, puoi scegliere di essere “puro”. Ma in realtà non è proprio così, perché poi ti accorgi che non ce la fai più a fare dischi, perché per venderli la gente deve ascoltarli ed i passaggi in radio sono importanti, così come lo sono perché la gente si incuriosisca e venga ai concerti. Così, alla fine, questo tipo di problema finisce per influenzarti quando scrivi la tua musica, o almeno quando la registri. Probabilmente, un produttore ti dirà “no, questa intro di contrabbasso falla dal vivo, ma sul disco non la mettere”.
Anche l’ascolto del disco è comunque cambiato. Ricordo che da ragazzo mi sentivo i dischi in cuffia duecento volte, fino a conoscerne ogni dettaglio; oggi pochi mettono su un disco e lo ascoltano per un’ora, facendo solo questo. I ritmi di vita sono cambiati, forse la percezione è mutata per colpa del “telecomando” – schiacci e vai a curiosare altrove, senza porre attenzione continuativamente sulla stessa cosa – forse lo stesso CD ha cambiato l’ascolto rispetto all’LP: dovevi alzarti, tirare su la puntina, cercare il solco, rischiare di graffiare il disco, mentre ora basta premere un pulsante…
L’organetto
I “puristi” della musica etnica non apprezzano del tutto il mio modo di suonare lo strumento, perché non è tradizionale. Per fortuna non lo è! Ho lavorato anni per non suonare “tradizionale”: ci sono già altri che suonano tradizionale e lo fanno benissimo; tanto varrebbe lasciar suonare loro! Ho seguito una scuola, ma poi io volevo essere me stesso e dire qualcosa di personale.
Ci sono in verità musicisti tecnicamente più dotati di me. Penso in particolare a Totore Chessa, un tradizionale sardo che all’organetto sembra Charlie Parker! Io ho provato a capire come faccia a suonarlo in quel modo. Niente! Potrei studiare tutta la vita e non ci riuscirei. Un talento! Poi altri tradizionali, specie al sud, e tanti giovani, molto promettenti. In particolare Filippo Gambetta. Ha vent’anni e, tecnicamente, suona in modo perfetto. Ed anche artisticamente è piuttosto avanti: compone, improvvisa, ha un bel fraseggio. Ha un grande futuro.
Sono contento di questa nuova generazione, perché quando ho cominciato a suonare io l’organetto non si sapeva bene neppure che strumento fosse, non c’erano insegnanti. Io l’ho scoperto interessandomi di musica popolare: partito dall’America, con Bob Dylan, e poi passato per l’Inghilterra – Fairport Convention – sono approdato all’Italia, dove allora svolgevano un buon lavoro la Nuova Compagnia di Canto Popolare ed il Canzoniere del Lazio. Lì suonava Francesco Giannattasio, che vidi in concerto. Faceva poche cose, ma lo strumento mi affascinò. Poco dopo lo rividi con Caterina Bueno, dove invece aveva molto più spazio. Rimasi affascinato. Ecco perché quando Caterina Bueno mi chiamò fui così pronto a rispondere. Oggi è uno strumento che ha un seguito ed un futuro, segno che il nostro lavoro di pedagogia e didattica ha funzionato.
Le esperienze
È buffo come nella vita le cose succedano per caso. A ventuno anni non avevo nessuna intenzione di fare il musicista di professione. Frequentavo, con eccellenti risultati, l’università e avevo solo cinque esami alla laurea in psicologia. Strimpellavo, come tanti, la chitarra, con risultati molto modesti. Avevamo un trio chitarristico e suonavamo nelle Case del Popolo. Io ero il più scarso e per questo “tentavo” con il mandolino, con il flauto, con la fisarmonica, occasionalmente anche con l’organetto. Poi, un giorno, Caterina Bueno, che aveva appena sciolto il suo gruppo, ci sentì suonare e ci chiese di ricostituire un nuovo gruppo con lei. Nel precedente c’era Giannattasio all’organetto, quindi qualcuno doveva prenderne il posto. E perché toccò proprio a me? Solo perché ero il più scarso con la chitarra!
Devo dire che trovai una certa facilità, che subito si sposò ad una grande passione per lo strumento, ad una gran gioia di suonarlo. Fatto sta che, da un giorno ad un altro, la mia vita prese una svolta imprevista: all’inizio del ‘78, a ventidue anni, cominciai a girare in tourneé con Caterina Bueno, in Francia, in Germania. Viaggiavo, mi pagavano, incontravo tutti quelli che avevo visto sui dischi. Mi dissi: “ma questo è il paradiso!” Certo, mi misi a studiare, otto ore al giorno, autodidatta. Non l’avevo mai fatto prima ma la voglia di rimanere in quel mondo era tanta. Inoltre avevo anche una sorta di “responsabilità”: Giannattasio, che era stato considerato a lungo il miglior organettista italiano, aveva smesso ed io, in qualche modo, ne riprendevo l’eredità e volevo farlo bene. Solo che qualsiasi cosa mi disturbasse in questo lavoro la vedevo come un impiccio, per cui mollai anche gli studi, per la disperazione della mia famiglia. Li capisco: se adesso lo facesse mia figlia.… Beh, m’è andata bene, però oggi posso dire di aver avuto una buona dose di incoscienza!
Ricordo ancora il primo concerto, al Palalido di Milano per l’8 marzo: c’erano quattromila persone, io avevo fatto forse quattro concerti in campagna. Iniziammo a suonare ed ero terrorizzato: non sapevo neppure come si sistemavano i microfoni! Meno male che iniziarono a contestarci, tirando palle di carta, perché le femministe non accettavano la presenza sul palco di tre uomini al concerto dell’8 marzo; così lo spettacolo fu sospeso ed evitai lo stress di suonare di fronte a tutta quella gente!
Il vero battesimo della folla lo rimandai solo di un paio di mesi, al 1 maggio, ad Arles, in Francia. Lì avemmo un buon successo, l’organetto diatonico interessava, io ero l’unico italiano che lo suonasse che conoscessero, e trovai molte occasioni di lavoro. In breve mi guadagnai una certa notorietà, mentre in Italia non mi conosceva nessuno.
In seguito ho suonato con tanta gente diversa. In primo luogo, con sardi – il gruppo Ritmia, Elena Ledda, Enzo Favata. Amo la Sardegna, musicalmente e come terra. Nella mia carriera ho sempre avuto in piedi una collaborazione con un gruppo sardo. I miei lavori con i sardi sono stati così tanti che talvolta mi chiedono se non sia sardo anch’io, perché ne ho un po’ assimilato la parlata.
Poi musicisti occitani, come Jean-Marie Carlotti e Patrick Vaillant (che è uno dei musicisti che ha maggiormente influenzato il mio pensiero musicale), poi ancora con l’inglese John Kirkpatrick, il basco Kepa Junkera, il malgascio Justin Valì. Quindi con i jazzisti e infine con i cantautori: oltre alle esperienze, importantissime, con De André e Fossati, ho lavorato persino con gli Skiantos!
Se ti accosti a queste esperienze in una maniera molto aperta, impari sempre qualcosa, che può essere di volta in volta molto diverso: il modo di organizzare la musica, di arrangiare, di registrare. Ad esempio, lavorando con De André e Fossati ho scoperto un modo di produrre i dischi che non conoscevo e che da allora ho adottato. Mentre nel jazz si registra in due giorni cercando di cogliere il più possibile lo spirito del momento, lì è tutto molto calcolato, soppesato, anche per quell’equilibrio tra testo e suoni, voce e strumenti, che deve essere rigorosamente rispettato e deve essere riversato con il mixaggio migliore. Certo, dipende dai brani – alcuni sono in realtà registrati live in studio – ma ormai con Banditaliana utilizzo spesso questo metodo.
Banditaliana
È il progetto sul quale lavoro maggiormente in questo periodo. Anche se prende molta ispirazione dalla musica popolare, è un gruppo pensato come pop: basato su una forte energia, con un grosso lavoro sull’aspetto ritmico ma non di tipo jazzistico, visto che c’è una precisa scrittura delle percussioni. Specie nell’ultimo CD, “Thapsos”, dove la presenza di due percussionisti ha reso quest’aspetto ancor più curato. In Banditaliana rimane il concetto dell’assolo, dell’improvvisazione – specie dal vivo – però non è un gruppo di improvvisatori. Che poi, in realtà, nel gruppo ci sono, ma non stanno lì in quella veste.
Oggi il gruppo è molto cresciuto, anche grazie alle tantissime tournée internazionali che hanno permesso ai singoli di apprendere una capacità scenica di stare sul palco che si è aggiunta alle eccellenti qualità di musicisti che tutti avevano. Dopo dieci anni di lavoro assieme, il gruppo è adesso molto rispettato in Europa e nel mondo: ci richiedono perfino in Giappone ed Australia. Io sono stato il fondatore, ma tutti e quattro i membri sono importantissimi. Una menzione in particolare per Maurizio Geri, un chitarrista che, nel campo della musica etnica, non ha molti eguali in Italia e persino in Europa. Inoltre è la nostra voce solista ed ha una grande conoscenza della musica tradizionale.
Credo che la forza di Banditaliana sia comunque l’energia. Non l’abbiamo trovata subito, però, ma solo dopo qualche anno. Ricordo un concerto a Parigi, in un piccolo teatro, che fu bellissimo e dopo il quale non ne abbiamo più sbagliato uno. È stata una sorta di maturazione sul palco.
I viaggi
Nella musica che suoni inevitabilmente raccogli tutte le esperienze che hai fatto. Ed io, musicalmente, ne ho fatte tante, un po’ perché sono “onnivoro”, un po’ perché ho viaggiato moltissimo.
Questo mestiere, oggi, è l’unica cosa che so fare, per cui dovrei farla comunque. Fortunatamente, la grande passione per l’organetto, dopo tanti anni, non è per niente diminuita. Meno male, perché spesso il lavoro è anche pesante: devi viaggiare, lasciare a casa la famiglia, spesso non riesci a vedere altro che l’albergo, il ristorante e il palco. Certe volte suoni una sera a Grosseto, la successiva a Montpellier, quella dopo nel Nord della Francia. È faticoso. Poi, quando sono in tournée vorrei sempre essere a casa. Però, c’è anche un senso dell’avventura, quella che percepisci guardando le terre dove stai andando dal finestrino dell’aereo, che serve: è una boccata d’aria, è un momento di diversità e di stimolo, che favorisce l’equilibrio della vita nei lunghi e rassicuranti periodi vissuti a casa. Il problema casomai è che questi stimoli non arrivano quando li decidi ma dipendono dal mercato: certe estati ricche di tour, per esempio, sono davvero stressanti.
Progetti jazz
Da qualche anno Banditaliana mi ha assorbito quasi interamente e non ho avuto occasione di ripropormi in ambito più strettamene jazzistico. Un po’ più jazz lo faccio nel progetto sul ballo liscio, anche per la presenza di musicisti più propriamente jazzistici – Piero Leveratto, Gabriele Mirabassi, Mauro Grossi. Il Trio Colline, con Trovesi, da qualche anno non ha fatto più concerti ma mi piacerebbe riproporlo. Così come mi piacerebbe pensare, con calma, ad un progetto più strumentale; oggi vorrei andare ad esplorare un universo anche più formale del jazz, ad esempio lavorare la mia musica con un organico tipo Harmonia Ensemble, con violoncello, clarinetto e pianoforte. Però anche qui bisogna trovare il tempo ed il momento giusto per realizzare le idee. Con Trovesi abbiamo impiegato dieci anni per realizzare l’idea di suonare insieme; però alla fine ci siamo riusciti.
Gianluigi Trovesi
Sono veramente contento di aver lavorato con Gianluigi, prima di tutto perché è davvero un grande musicista, poi perché è di quei jazzisti che sono realmente e profondamente convinti di lavorare nella direzione dell’incontro con musicisti di altre aree. Quando suonammo assieme, lui si trovò di fronte ad un duo – me e Vaillant – già strutturato, con una propria estetica anche molto forte. Altri avevano provato a suonare con noi, ma non aveva funzionato perché non erano riusciti a portare niente “di più”. Gianluigi c’è riuscito, e l’ha fatto “entrando” nella nostra situazione musicale senza far gravare la vastità della sua statura artistica, senza richiedere un adeguamento al suo linguaggio, ma cercando un incontro “naturale”, che infatti è riuscito con incredibile facilità e permettendo una grande creatività.
Un Ballo Liscio
È un disco che sono davvero felice di aver realizzato; credo sia una delle mie cose più belle. Premetto che è scorretto dire “ho realizzato”, al singolare, vuoi perché gli arrangiamenti sono stati fatti in tre – oltre a me, Patrick Vaillant e Mauro Grossi – vuoi perché ci hanno lavorato in tanti: ad esempio, gli assoli di Mirabassi, un musicista davvero straordinario e del quale non riesci mai a vedere il limite delle possibilità, da soli innalzano la qualità del disco. Cito lui, ma questo vale per tutti gli altri.
Ho esitato molto prima di affrontare il progetto, perché mi sono reso conto che c’era molto da perdere e poco da guadagnare, a causa dei pregiudizi che giravano sul genere musicale. Era stata la Silex, casa discografica non a caso francese, a chiedermi di fare un lavoro su queste musiche, ed io mi sono detto ‘o facciamo un capolavoro, o siamo fritti”. Di conseguenza, ho preso tempo per cinque anni. Poi, studiando la storia del liscio e facendo ricerche ho pian piano cominciato ad intravedere delle possibilità. Un’idea importante è stata proprio quella di affidare gli arrangiamenti a persone diverse, per cercare di sfruttare le differenze e le conflittualità, perché per trovare il giusto equilibrio in un’operazione del genere secondo me un po’ di conflitto era necessario. E infatti, la discussione ed il confronto ha permesso di individuare interpretazioni equilibrate.
Un’operazione sul ballo liscio la puoi fare in tanti modi. Il primo, quello allora più immediato (perché si trattava della prima operazione del genere, altre ne sono seguite dopo ma perché noi lo avevamo “sdoganato”) è quello “ironico”. Credo che fosse la possibilità più sbagliata, perché avrebbe voluto dire una “presa di distanza” che sarebbe stata una conferma dei pregiudizi. Per evitare questa possibilità è stata importante la presenza di Patrick che, essendo francese, non aveva tutti gli stereotipi sul genere che potevamo avere noi e non si vergognava di suonare quella musica. Un secondo modo può essere quello di fare una versione jazzistica, applicando il vocabolario del jazz alle strutture armoniche e melodiche del liscio. Però una tale operazione può andar bene su un pezzo ma non è adatta ad un progetto, perché rischia di far sparire il liscio.
Da questo punto di vista un mio riferimento importante è Ry Cooder, un musicista che ha fatto molte volte operazioni di questo tipo, riuscendo ogni volta a rispettare lo stile sul quale interveniva, pur mettendoci sempre quella punta di “suo” che ti permette di riconoscere che è un disco di Ry Cooder. Non è facile fare un disco che sia “tuo” ma rimanga riconoscibile da chi è un amante di quello specifico stile, ovvero non ne alteri le strutture portanti. Ed è un equilibrio difficile, che rischia sempre di scivolare nel kitsch o nel brutto… A giudicare dalla risposta della critica e del pubblico, direi che ci è andata bene. Inoltre, a me il disco piace, mi diverte ascoltarlo, sebbene io non avessi mai suonato il liscio – e suonare il liscio con l’organetto è di una difficoltà tecnica al limite delle mie capacità, perché è uno stile molto cromatico e va proprio contro lo strumento che suono.
Alla fine credo che siamo riusciti a metter d’accordo un po’ tutti: i jazzisti, gli specialisti di musica etnica e persino gli amanti del liscio, che hanno accolto questo disco “a braccia aperte”, perché gli ha in qualche modo “sdoganati” presso la cultura ufficiale, visto che è un lavoro con basi teoriche importanti, ed è tutto molto spiegato. Così, il disco è piaciuto ed ha anche venduto abbastanza bene. Avrebbe potuto vendere di più se avesse avuto una distribuzione più adeguata. Comunque, a distanza di sette anni il disco è ancora in catalogo per la Silex, lo spettacolo continua a girare e ad essere richiesto. Oltretutto è un disco davvero ben registrato, grazie al lavoro del fonico Silvio Soave, uno dei miei due fonici preferiti, assieme con Stefano Melone. Con Soave preferisco registrare i progetti più vicini al jazz, con Melone quelli più prossimi alla canzone.
Le etichette
Mi sono ritrovato alla Silex quasi per caso. Io e Patrick stavamo iniziando le registrazioni di “Veranda”, l’album precedente a “Colline” ed uscito nel 1990. Dovevamo farlo per Ocora Radio France, ma André Ricros, che lavorava per quell’etichetta, aveva deciso di creare una nuova casa, assieme a Philippe Krumm, grande specialista della fisarmonica, organizzatore, giornalista, personaggio curioso e centrale nel mondo della musica etnica francese. La loro idea era fare della Silex una sorta di ECM del versante neotradizionale, ovvero di quella corrente di musicisti che avevano un passato nella musica etnica ma cercavano altre cose. Oltre a noi, entrarono subito nell’avventura tra gli altri il quintetto di clarinetti bretoni, che facevano musica etnica bretone ma con una colorazione jazz e strumenti non tradizionali, e Valentin Clastier, un eccellente musicista che suona uno strumento tradizionale – la ghironda – ma fa una musica molto avanzata. Ed in quel periodo effettivamente Silex ha prodotto dischi bellissimi e tutto funzionava benissimo a livello di produzione ma, sistematicamente, le cose diventavano difficili una volta che si arrivava alla promozione ed alla distribuzione. Così, dopo qualche tempo iniziarono le difficoltà economiche, che portarono alla cessione alla Auvidis, una grossa casa francese, che a sua volta fu acquistata da Naive, una major francese. E lì l’avventura si è conclusa, perché i due creatori ed “agitatori” sono prima stati declassati a dipendenti, poi definitivamente allontanati e così il progetto artistico è finito. Rimane solo il catalogo. Un peccato, perché l’esperienza era bellissima e offriva stimoli e grandi possibilità di pubblicare progetti originali. Con Silex ho fatto cinque dischi: bastava avere un’idea e la potevi realizzare, con un buono standard professionale, cosa che normalmente è molto più faticosa.
Oggi ho un contratto con Il manifesto, che rappresenta una ben precisa scelta. Non avendo una casa “forte” di riferimento, l’alternativa era o una piccola casa indipendente, dove essere stimato ma dove non ci sono i mezzi, oppure una major, che però non è interessata a musicisti del mio genere – tutto quello che odora un po’ di cultura sembra dar loro fastidio… – ed entro la quale devi abituarti ad essere comunque l’ultima ruota del carro: non investiranno mai su di te a livello di promozione e distribuzione, perché hanno già deciso che non venderai. Il tuo ruolo è quello del “fiore all’occhiello” nel catalogo, niente di più.
Inoltre avevo fatto una scoperta importante e drammatica: quando la Silex è stata venduta, io ho dovuto vedere la mia musica in mano di altri, i miei brani diventare proprietà di chi aveva comprato Silex. In teoria, per dieci anni io non potevo neppure riregistrare i miei brani, neppure con altri musicisti. Mi sono sentito profondamente derubato ed ho deciso che non avrei più vissuto una situazione del genere, perché l’unica cosa che io ho è la musica e voglio che rimanga mia. Ho così deciso di produrre da solo la mia musica, dando in licenza ad un’etichetta la possibilità di sfruttare la vendita dei miei dischi, rimanendo in tal modo proprietario del master e della musica. Con Il manifesto abbiamo trovato un accordo di questo tipo facilmente.
Poi il manifesto, con questa operazione di uscire nelle edicole ad un prezzo molto basso, ci ha permesso di raggiungere un livello di vendite che non avremmo mai raggiunto con un’etichetta tradizionale: il primo CD di Banditaliana è arrivato attorno alle quindicimila copie in Italia, che per noi è un buon risultato. Ciò mi permette anche di trovare accordi per la vendita all’estero, nella fattispecie con Felmay, un’etichetta italiana di vecchi amici che ha una serie di accordi di distribuzione all’estero piuttosto funzionali, molto specializzata ma capace di garantire una presenza dei dischi in tutto il mondo. La vendita ad un prezzo basso è importante per chi come me fa una musica fuori dai generi e non ha promozioni, video, spot, eccetera. Se devi spendere venti euro per un disco che non conosci, anche se ti incuriosisce ci pensi su; se invece devi spenderne solo otto, magari rischi più volentieri. L’aver venduto di più ovviamente innesca poi una serie di fenomeni, come il passaparola, la maggiore visibilità, la crescita del pubblico ai concerti, la maggior richiesta del gruppo. Insomma, un’esperienza molto positiva.
Acqua, foco e vento
Il prossimo disco in uscita è un’altra operazione simile a quella sul ballo liscio. Anche in questo caso mi è stata commissionata, dall’ufficio cultura della provincia di Pistoia, con un finanziamento europeo per l’allestimento. L’idea era quella di sviluppare un progetto sulla musica della montagna pistoiese, quindi un corpus di musica molto compatto, e farlo diventare un progetto personale, rispettando lo spirito originario delle musiche. Certo, questo era un po’ più facile del liscio perché è un argomento che conosco di più: sono pistoiese e mi sono sempre interessato alla musica della mia terra. Però si tratta di un repertorio tutto vocale e quindi mi poneva delle difficoltà aggiuntive, visto che io sono più strumentista. Messo di fronte a questo progetto, ho subito pensato di lavorare con Maurizio Geri, che è un amico ed un collaboratore da anni e anni ma anche un grande conoscitore di questo repertorio, probabilmente il più grande, ed infine è anche un grande interprete. Abbiamo reperito il materiale, ascoltato registrazioni, letto libri, cercato video. Quando affronto operazioni di questo tipo la prima cosa che faccio è entrare nell’argomento, interamente, cercando di penetrare nel suo “mondo”. Ecco, per me è un po’ come un viaggio, che poi, nello spettacolo, cerco di raccontare. Fatto questo, abbiamo arrangiato a quattro mani la musica, piuttosto a lungo, diversi mesi, e individuato la formazione più adatta. In questo caso ci sono tanti cantanti, perché la polifonia è centrale in questa musica. Il lavoro sulle voci è stato molto complesso. Alla fine devo dire che sono soddisfatto quanto del progetto sul liscio, sebbene, certo, in questo caso si vada molto meno verso il versante jazzistico e molto più su quello della canzone d’autore. Ma poi c’è il mondo musicale mio e di Maurizio, c’è Banditaliana, c’è l’apporto di Devis Longo per gli arrangiamenti delle polifonie (ci avevo lavorato in un progetto di qualche anno fa, “Transitalia”, con la regia di Moni Ovadia).
Ad ogni rappresentazione che abbiamo fatto, lo spettacolo ha avuto sempre molto successo. Alla prima, a Pistoia, c’erano mille persone in teatro e cinquecento fuori che non erano potute entrare. E poi a Firenze a “Fabbrica Europa”, a Trento. È uno spettacolo pieno di sorprese, con un gran finale. Uscirà tra marzo ed aprile per i dischi de Il manifesto, l’ho appena mixato e sono molto contento. Poi faremo una nuova tourneé, anche se non sarà facile, dieci persone sono troppe per avere un’attività concertistica continua. Progetti di questo tipo, purtroppo, per essere realizzati e poter girare hanno necessariamente bisogno di aiuti pubblici e di entrare in un certo tipo di circuiti.
Pubblicato il 19/11/2002
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