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Il Ballo di Riccardo Tesi - Sistemamusica.it

Intervista a cura di Gianni Nuti

Quali mondi poetici emana l’organetto diatonico?

“È uno strumento povero, che si esprime con un vocabolario naturale legato al ballo: i miei studi sull’organetto conducono sempre verso il movimento e il primo disco all’inizio degli anni Ottanta è dedicato alla musica da ballo dell’Italia centrale. Anche se non suono per far ballare la gente: la mia lingua è frutto di una ricerca personale che, pur partendo dalla tradizione, tende a piegare l’organetto verso un idioma più sfaccettato e moderno, che ha preso forma anche grazie alle mie frequentazioni di ambiti musicali come quelli del jazz e della canzone d’autore”.

Lei ha lasciato gli studi di psicologia per dedicarsi alla musica: forse ha trovato in essa uno strumento di conoscenza e di indagine sull’uomo migliore?

“Questa passione, che si è trasformata casualmente in una professione, ha senz’altro rappresentato un sistema per coltivare il mio interesse per le persone, con le quali ho scelto di parlare attraverso l’emozione, prima vissuta poi trasmessa. È certo un modo per avere cognizione di ciò che si è e manifestarlo, anche dolorosamente, perché la creazione passa attraverso la fatica, è minata dal dubbio e dalle delusioni”.

Ci racconti la genesi del progetto Ballo liscio…

“Il mio rapporto con il liscio è fondato su un conflitto tra interesse per un fenomeno tutto italiano e diniego per un genere che ha scalzato la nostra tradizione sporcandola di elementi extramusicali molto kitsch, obsoleti. L’occasione per approfondire il tema mi fu indotta dalla mia ex casa discografica francese, la Filex che, sull’onda di una corrente di rivalutazione della musette – il pendant del liscio d’oltralpe -, m’incoraggiò a fare lo stesso per l’Italia, con lo spirito disincantato, senza freni e stereotipi, di chi legge la storia dall’esterno. La mia titubanza, rinforzata anche dalla scarsa adattabilità di quel repertorio al mio strumento, si sciolse man mano che, studiando, riuscii a individuare delle coordinate storiche alle quali appigliarmi, e a trovare riscontro a una convinzione: essendo musica italiana, da qualche parte ci dovevano essere delle belle melodie. Decisi di immaginare il liscio come un catalizzatore di diversi stili, ridando forma a questo blocco apparentemente monolitico con tre impronte stilistiche diverse: etnica, jazz e classica – incarnate da undici eccellenti strumentisti – e scegliendo un taglio compositivo che coniugasse rigore con spregiudicatezza. Visto il prodotto finito e raccolto un inaspettato successo, alla mia diffidenza iniziale si sostituì così un appagamento artistico convinto. Mi piace ricordare che Carlo Mazzacurati utilizzò questa musica ne La lingua del Santo e a De André fu molto caro il nostro disco”.

Che cosa ha raccolto dai suoi molti viaggi musicali e umani?

“Dai viaggi ho imparato a mettermi in gioco e non partire dall’idea che il mondo è quello che vedo io, ho familiarizzato con le differenze, è cresciuto il mio spirito di accoglienza e la disposizione all’ascolto: si perdono molte idee proponendo sempre ed energicamente le proprie. Così ho fatto con la musica, cercando di acquisire disinvoltamente temi e abiti dell’altro come fossero i miei, confrontandomi con giudizi differenti sul bello”.

Partendo dalla sua esperienza sfaccettata di musicista, che cosa e come insegnerebbe alle nuove generazioni?

“Cercherei un contenuto e una modalità. Partiamo dal primo. Non c’è una musica, ma molte musiche, ciascuna delle quali privilegia degli aspetti, richiede abilità, effonde valori differenti: la classica presuppone conoscenze profonde e perfezione tecnica, il jazz la capacità d’improvvisare, il rock l’energia estrema. Per ciascun genere va portato rispetto, tutti vanno studiati con identico rigore analitico. La modalità: prima la pratica, poi la grammatica, partendo da esperienze musicali vive osservate a posteriori”.

Il contatto con il pubblico delle sale da concerto rispetto a quello delle piazze quali specificità presenta?

“È un grande privilegio suonare in sale acusticamente ideali per fare e ascoltare musica. Certo, l’atteggiamento tra i pubblici è radicalmente diverso: per noi, strumentisti non classici, è sorprendente che non ci sia l’applauso alla fine di un pezzo, un gioco di feedback così frenato ci obbliga a calibrare le energie in modo diverso, ma magari per ricevere un unico imponente riscontro a fine concerto”.

Si prega, al concerto di Riccardo Tesi, di applaudire in libertà.

20/9/2002

sito web Sistema musica


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