di Neri Pollastri
Prossimo al traguardo dei trent’anni di carriera, con alle spalle un gran numero di lavori in collaborazione con musicisti provenienti dagli ambiti più diversi – dal jazz alla musica tradizionale, fino a quella pop (clicca qui per leggere la recensione di alcuni suoi lavori del passato e qui per il suo ultimo lavoro, Crinali) – Riccardo Tesi, il più autorevole organettista italiano, ha pensato che fosse giunto il momento per registrare un lavoro in solitudine, nel quale fare il punto della sua personalità strumentale, come esecutore e come compositore.
Se presentare un disco in solo è sempre impresa ardita, perché mette il musicista di fronte a molteplici ostacoli di tipo sia tecnico, sia psicologico, affrontare questa sfida con uno strumento come l’organetto lo è ancor più, perché inevitabilmente il confronto finisce per esser fatto con i soli di fisarmonica – che è strumento diverso e per certi aspetti più completo – o di bandoneon – che si è sviluppato attorno a tutt’altra tradizione musicale.
Proprio per questo, Tesi – com’è peraltro sua abitudine – si è tenuto lontano da tali possibili modelli – che peraltro ben conosce, come dimostrano le dediche a Dino Saluzzi e Guy Klucevsek – ed ha messo a punto un programma che include brani ispirati interamente alla tradizione organettistica, in parte già facenti parte del suo ampio repertorio (“Tevakh”, “Sestrina”, “Capelli neri”), in parte composti per l’occasione.
Se i riarrangiamenti per solo organetto di brani già noti permettono di apprezzare a pieno le qualità di Tesi e le molteplici e suggestive voci dei suoi organetti (di tre tipi diversi), le composizioni originali aprono scenari nuovi e, spesso, sorprendenti. “La marcia dei criceti”, ad esempio, presenta un’inusitata introduzione ritmica su bassi profondi, che ritorna nella chiusa e conferisce al brano un sapore di malinconica meditazione; “Batticuore” – definito nelle note “scherzo per mano sinistra e tremolo” – rende a perfezione il titolo grazie a un geniale gioco virtuosistico (e forse non a caso è dedicata a Klusevcek, tra i più arditi virtuosi del mantice); “Penombre” sosta ancora sulle atmosfere dei bassi e, nonostante includa come gran parte dei brani delle melodie derivate da danze popolari, di nuovo rinvia ad una musica introspettiva, molto personale.
Così, anche se certo non mancano momenti più estroversi – da questo punto di vista è esemplare “Marok”, i cui effetti ritmici entusiasmanti sono prodotti con i piedi e con la mano destra – quel che colpisce del disco è la trasversale cifra pensierosa, nitidamente raccolta, quale si conviene ad un lavoro solitario, anche quando sia in ideale comunicazione/collaborazione con l’altro – come nel brano forse più bello del lavoro, quel “Processione” che cerca con successo di rendere con il solo organetto un intero organico di zampogne.
Un gran bel disco, di un artista che pur non avendo più niente da dimostrare, riesce comunque a stupire per originalità e incantare per maestria ad ogni nuovo lavoro.
A Popular con Riccardo Tesi - Tgcom.it | Crinali - Moorsmagazine